I N S P I R A T I O N
Uno dei motivi che mi hanno avvicinato definitivamente alla fotografia è stato un evento accaduto una decina di anni fa in un mercato delle cose vecchie a Roma. Ero alla ricerca di cianfrusaglie, immagini vecchie,cornici,dischi ed oggetti esotici,poco comuni insomma.Dovevo arredare(riempire) la camera che avevo in affitto nella casa che condividevo sulla Nomentana. Camminavo da qualche decina di minuti e ancora niente, a un certo punto da un banco di libri ne notai in mezzo a tanti colorati uno bianco con in copertina un gladiatore in bianco e nero,al centro un dettaglio rosso sul elmo “Roma sparita”.
Sembrava messo li apposta, eppure non era cosi.In fondo al banco in fila uno di fianco all’altro non più di cinque libri, tutti molto grandi.Tra questi si distingueva una linea di azzurro acqua ,con una grafica oro intagliata “In the Shadows of Mountains”. Allungo il busto e ancora il braccio destro,tiro fuori il volume con cura (ci vuole attenzione con cuccioli e libri) e dalla copertina una bambina dagli occhi chiari,con il capo avvolto in un telo azzurro della stessa acqua del retro mi costrinse a comprare quel libro senza neanche trattare il prezzo con il suo venditore,20 euro.Quando mai.
“The Shadows of Mountains” è una delle raccolte più importanti di uno dei grandi fotografi dell’ultimo secolo #stevemccurry ed il mio primo libro fotografico.Oggi riposa nella mia libreria su in alto,spesso lo ritiro fuori riguardo e rivedo le sue scene, le stesse che hanno formato le mie. Di tanto in tanto poi,come stamattina per strada, ritrovo Steve e la sua bambina azzurra che mi spinge a fare ciò che sento, senza dubitare e, sopratutto, senza mai trattare.
Lasciamoci ispirare.
Giuseppe Divaio
#mobilephotography
Dove “a signor” si preoccupava non tanto della cena, se mai della spesa.
La spesa: La cadenza nella voce è tipica di chi vive il quartiere da tre generazioni, accompagna al suono un po’ rauco un immancabile gestualità,ancor più tipica di vicoli come questo.Capelli legati, borsa nera stretta al braccio sinistro,poggia per terra una busta di plastica appena riempita,credo dal salumiere.La ascolto poco distante. Sembra posseduta dall’idea di dover dimostrare al fidanzato senza nome della figlia che lei la “robba bon” la sa comprare. A casa sua solo roba buona. Racconta a voce alta che la sera il ragazzo sarebbe stato ospite a casa e che ogni volta non sapeva che cucinare, perché “stu uaglion” aveva mille vizzi. Il fruttivendolo ambulante lungo Via Nilo, nel cuore della città vecchia,sul suo furgoncino bianco di frutta ne aveva,di ogni tipo. “Signo’ aranc’ so bon, pigliatv doi pumnarullell ro Vesuvio.Uardat c’puparuol” la signora, del resto, troppo presa dal suo racconto nemmeno lo ascolta, concentrata, non può assolutamente sbagliare: “Mi raccomando giuvino’,chi o sent o jennr’ mi! chill s’lament semp ra mamm. Ieri sera a tavola diceva che questa Cristiana non è mai capace di portare a casa un po di frutta saporita. Mah… io proprio non capisco. Giuvino stu uaglion sta sprut e na Banana comm si deve!”.
Su in alto un anziana signora si affaccia dalla finestra,allunga le braccia verso sinistra e stende una piccola pezza rosa, da un occhiata giù nel vico richiude la finestra e rientra. E’ ora di pranzo da queste parti il momento è critico, ci tengono assai, non si può sbagliare.
Dove “sprut” in Napoletano si usa per identificare il desiderio. Dove il teatro nasce per strada. Dove ognuno con la spesa fa quel che può.
Giuseppe Divaio
Photo take with Iphone5
Qualche giorno fa per un intervista mi chiedevano come mai mi soffermassi spesso su scene come questa.
“Gli scugnizzi”. Cosa essi rappresentassero realmente per me:
Mio padre nel quartiere è conosciuto da tutti come “o’ scugnizz”, da piccolo i suoi amici per ovvie ragioni di conseguenza mi chiamavano ” o’ scugnzziell”.
La prima vera eredità, il primo passaggio padre/figlio a Napoli sta nel nome scelto dal popolo.
Un pomeriggio estivo di quasi trent’anni fa un signore che di tanto in tanto veniva giù da Viterbo a far vista alla Famiglia penso bene di fotografarmi. Si chiamava Antonio, era molto alto, capelli ricci ed un grande neo sul viso, per tutti era Tonino. Aveva una grande passione per la Fotografia.
Quel giorno mio padre era ancora a lavoro, lui tornava spesso tardi la sera, cosi Tonino chiese il permesso a mia madre che da poco mi aveva fatto tagliare i capelli, “corti corti” a spazzola. All’epoca probabilmente i capelli si tagliavano una volta ogni tre/quattro mesi, un evento.
Avevo circa sette anni, mia madre acconsenti.
Ero seduto su di un muretto alto meno di un metro, appoggiato con la schiena vicino ad una protezione in plastica e ferro che divideva il cortile da un giardino privato. Pesavo in tutto 30 kili un’ “Alice”, riuscivo ad avvolgere la mano intorno ad una caviglia e far combaciare senza sforzi pollice e indice. Avevo un pantaloncino corto, poco sporco, una canotta ed un paio di scarpe modello “All Star” gialle. Correvo sempre. Tonino ,che mi conosceva bene, mi chiese di tenere una sigaretta accesa tra le dite e di far finta di fumare, senza scottarmi s’intende, una recita in buona sostanza. Durò poco.
Fatta qualche foto Tonino mi accarezzo, non in testa per non rovinarmi il look, e ci disse che sarebbe tornato per mostrarci il risultato, ringraziò mia madre e salutò. Io tornai a correre.
Qualche mese dopo, rincasando dal solito giro pomeridiano con il mio gruppo di piccoli amici, mia madre mi mostrò appesa una foto incorniciata in bacchette di legno verde, adornata di un sottile filo rosso al centro della stecca. Un bianco e nero con uno scugnizzo che faceva finta di fumare. Tonino aveva mantenuto la sua promessa.
Diceva orgoglioso a miei che con quella foto ci aveva vinto un concorso a Firenze. A Firenze!
Volle rifotografarmi, quella però volta i capelli erano cresciuti ed in testa avevo un berretto blu girato al contrario.
Ecco ora provate a fare la stessa domanda a Tonino ( che non vedo da qualche decennio ) un uomo più grande e saggio di me, o alle migliaia di Tonino da decenni rapiti da scene come questa.
I bambini di Napoli sono Napoli, ciò ero io oggi sono loro. È l’identità, la vita che esiste e resiste. Nuovi occhi per vecchie scene.
È la mia città che immortale si ripete.
Quella foto in bianco e nero nella sua cornice verde con un filo rosso al centro resta appesa su ogni mia parete e Tonino orgoglioso, chissà dove, ripensa ancora.
Giuseppe Divaio
Photo make with Iphone5
Non una bella storia.
Da piccolo mi chiedevo come sarebbe stato vivere in quattro mura, senza poter mai uscire.In certi quartieri del Mondo la domanda, per quanto strana, nasce spontanea.
Un mese fa camminando per vicoli conobbi un giovane uomo sulla ventina A. .Una pantera tatuata sulla mano sinistra catturo la mia attenzione. Era appoggiato, braccia penzolanti sull’uscio di un basso, una stanza stretta e con poca aria, dove attaccato al fornello della cucina c’era il letto in cui dormiva.Il caldo era asfissiante neanche un filo di vento e l’unico rumore che sentivo era il gocciolare del tubo di plastica di chissà quale condizionatore appeso dall’altro lato della strada.Napoli era bollente e semideserta, A. scontava in quel posto un debito con lo stato, non una bella storia. Visibilmente stanco, nonostante fosse seduto da un po’, magro e debilitato, sopravviveva in dieci metri quadri con un’anziana signora (sua Nonna credo) impaurita ,diffidentemente, si, ma comunque sorridente.
La storia è breve e tutta in dieci metri: chi sbaglia paga e chi povero sbaglia paga e ripaga. 40 gradi in 10 metri possono essere una pena troppo dura per chiunque, poco umana perfino per chi poco umano è.
Io e A. siamo diventati amici, non è stato difficile parliamo probabilmente una lingua simile.Volli fotografare la pantera sulla mano sinistra,ne fu felice.Parlammo un po’ e mangiammo biscotti, era stanco.
Consapevole ma stanco.
Ieri sono ripassato a trovarlo ma A. non c’era,ho chiesto in giro e l’anziana signora, facendo segno con la mano destra, mi disse che era stato riportato in una casa circondariale dove hanno come obbiettivo quello di riabilitare alla vita ragazzi “complicati”. Poggioreale.
Se solo fosse vero.
- nella sua giovane vita ha commesso degli errori ma la colpa non è certo solo sua.Nessun uomo nasce cattivo o nel posto sbagliato, se mai gli adulti dovrebbero fornire gli strumenti adatti ad affrontare la vita ai più giovani, nel bene e nel male.Ma non a tutti è concessa questa possibilità.
Certe vite potrebbero essere meravigliose,basterebbe parlarne.
Io e A. parleremo ancora.
Giuseppe Divaio
Finisco la mia acqua. Il Taxi arriva per le 4:00.
E’ molto tardi, la notte è andata su in discorsi cosi alti. Alti come il piano in cui alloggio. 32 Cabot Square.
Canary Wharf è l’America in Europa, qui i Palazzi grattano il cielo e tutto intorno le luci si accendo e spengono, senza sosta. All’ingresso del quartiere una piccola dogana ti riconosce o se, non hai un buon motivo, non entri. Dai piani più alti guardando verso sud lo sguardo per qualcuno va oltre la manica, chi vuole sogna.
E’ ora, Il telefono squilla: “Buongiorno signore sono giù che l’aspetto” puntale; “Mi dia un minuto scendo Signore”.
E’ Giugno la notte a Londra e fresca e manco a dirlo, piove. Chiudo la mia borsa, prendo lo zaino dal tavolo ci vanno le ultime cose, una controllata e saluto chi resta. Un abbraccio non è mai di troppo, con alcuni di loro non ci si vedeva da anni. Enzo e Frank stanno dall’altro lato della città, Salvatore dorme in camera con Nina. Francesco torna a casa 7:30 la sveglia suona per lui, Simone, Angelo e Gennaro scendono con me. L’ascensore va giù. Appena fuori l’edificio dall’ alto una leggera pioggia passa per le luci arancio di un lampione cade e mi sfiora, senza bagnarmi. Venti passi arrivo alla macchina ferma dall’altro lato della strada. L’autista scende per il bagaglio e togliendomi con cortesia la borsa dalle mani mi chiede dove fossimo diretti: “nord Signore” Gatwick Airport, terminal Nord. Si apre la portiera.
Una volta dentro l’auto chiedo se fosse stato possibile velocizzare le manovre, sarei dovuto partire tra meno di un ora e mezza, e a sentire l’autista il solo viaggio in Taxi sarebbe durato un ora. Il tempo.
Londra dorme, le strade sono vuote, anche se in realtà questa è una di quelle città che non dorme mai a sonno pieno. Vive tutto il giorno e basta un piccolo sbalzo per svegliarla, per risvegliarti.
Ci fermiamo a fare benzina, il mio “cardriver” è un Pakistano, come me molto silenzioso. Chiede permesso scende dalla macchina, 50 sterline nel distributore infila la pompa nel boccale, un minuto, rifornisce e siamo in viaggio.
Non dormo da 36 ore ed anche se dovrei non ho molto sonno. L’atmosfera della notte Londinese nella mia testa è un tumulto di rumori, i colori mi accecano. E poi c’è Chet. Circa le 4 e 10 del mattino in Inghilterra, Napoli mi aspetta e Chet Baker inizia.
Anni fa , mi era capitato di ritrovarmi in un posto a est della città, alcuni dicevano che la musica era straordinaria, il cibo poco meno, e si poteva bere senza fretta: 999 Bricklane. Una Birra e chiesi al Barman se potevo salire nel Club, “ofcourse, you are wellcome” rispose il giovane uomo con la cortesia tipica di questi posti. Chiesi allora qualcosa da mangiare e salii una rampa di scale, dopo un breve corridoio mi trovai in una sala grande. Tutto intorno sparsi per il perimetro grandi divani in pelle amaranto intagliata a piccoli rombi, luci soffuse e pareti in mattoncino. Appese alle pareti opere di ogni genere che attraverso un percorso visivo acquistavano la loro logica. In fondo alla sala un musicista con la tromba, suonava Jazz e in torno ognuno, da solo o in compagnia, beveva il suo. Sono lento a bere, se il posto mi piace lentissimo, Londra corre veloce. Mangio qualcosa, finisco con calma il mio drink mi guardo in torno e decido di bere ancora. Gli inglesi vanno matti per la birra o se proprio non sono in vena bevono Whisky; torno al banco e chiedo Jagermeister, la ragazza mi guarda stranita, e con una sottile vena di ironia chiede “Jagermeister?” non le sembrava forse vero. La sua difficoltà si manifestò nella faticosa ricerca di un bicchiere nel quale versare l’insolito drink. Gli Inglesi.
Sciolto dal secondo bicchiere, forse dal terzo, e dalle note che arrivavano dall’altro lato del Club mi avvicinai al musicista in fondo alla sala che nel frattempo aveva accompagnato il mio solito viaggio notturno, quelli erano i tempi. Gli dissi che sarei stato molto contento se avesse suonato per me un pezzo del mio jazzman preferito, Chet Baker. Lui un uomo di colore sulla cinquantina, alto, magro e slanciato, capelli corti sotto un cappello nero, baffi ben curati, pantalone scuro un tantino largo, mezzo stivaletto a punta, ed una giacca a quadri con delle sottili linee gialle: si ferma posa la tromba e in modo estremante gentile mi porge la mano e mi dice “ Signore io amo Chet, ma Chet non si può. Una sola persona poteva suonare i suoi pezzi, lui stesso. Sono desolato”. Gli Inglesi.
In autostrada, nel frattempo la pioggia aumenta, in alcuni punti ho difficolta a vedere la strada davanti a me. E’ molto chiaro, però, l’enorme anello in oro bianco con una grande pietra nera che il mio “cardriver” porta sull’indice della mano sinistra. Lo vedo con la coda dell’occhio, ci sono seduto dietro lato destro, qua si guida in senso inverso, lui muove le mani lentamente e in modo fluido, le stacca dal volante solo per cliccare il tasto dell’auricolare del suo cellulare. Dev’esser molto un uomo ricercato, alle quasi cinque del mattino in un ora avrà ricevuto almeno 6 telefonate, tono molto serio ed ogni volta due pensieri per “Allah”. Un bravo pilota. Ai lati della strada le enormi campagne Inglesi sono la cornice perfetta il pezzo che scorre nelle mie cuffie, “Alone Together” :la tromba è più del solito raffinata, la pioggia sottile si poggia fitta sui tetti a schiera delle ville sparse a decine di metri di distanza, l’erba lucida diventa un cuscino. L’aereoporto non è cosi lontano.
Giuseppe Di Vaio e Londra
Capodichino 20,40 circa. Un’ ora di ritardo.
Appena dietro di me, posto 14d corridoio, un bambino dalla chioma rosso ruggine, colorito bianco latte prende dolcemente a calci il mio sediolino. Devo avere una particolare attrazione per questo tipo di situazioni, ogni volta che mi siedo in un treno, un aereo o finanche un Bus dietro di me appare magicamente un bimbo, con dei genitori poco attenti, pronto quantomeno a movimentare il mio viaggio.
Se nasci in un posto dove un enorme montagna a due teste sovrasta e fa da cornice ad uno dei golfi più belli al Mondo, da sempre avrai sentito i più svariati racconti e leggende su di essa. Una di queste è il fuoco. Dio Vesuvio nel mio caso di fuoco ne ha sputato raramente, ma ogni volta che l’ha fatto è stato poco clemente con la sua stessa terra. Viviamo l’incubo del fuoco, la storia ci ha detto ciò di cui è capace e Pompei ancora brucia. Eppure in 34 anni e 6 mesi circa io di fuoco, fortunatamente, uscire dalla bocca di Dio Vesuvio non ne ho visto mai.
L’aereo nel frattempo sale e nemmeno il tempo di riabbassare lo schienale riscende, nel mio viaggio ci sono circa 40 minuti di volo il tempo esatto per leggere una guida, bere un po’ d’acqua e affacciarsi dal finestrino. Sotto una grande distesa d’acqua nera ed alla fine di questa la che terra risale e diventa montagna, una molto simile a quella che avevo pocanzi lasciato, una sola testa questa volta, luci, fuoco e stelle. Catania.
Dio Etna questa notte mi offre per primo nella vita la sua lava, ringrazio, e dall’alto resto ammirato. Fuoco amico dice Fabrizio.
Fabrizio è il mio primo contatto Siciliano, mi aspetta all’aereoporto e mi rassicura sul percorso della lava “ non temere, qui è tutto normale. La montagna non tarda mia a farsi sentire, ti ci porto! Andiamo su se vuoi”.
Mi piacerebbe ma il tempo a disposizione non è abbastanza, ho un po’ di cose da sistemare, sarà per la prossima volta. Chiedo a Fabrizio di accompagnarmi in Hotel dove tra l’altro mi aspettano per cena. Di strada passiamo a prendere Simonetta, artefice del mio viaggio Siciliano. Un abbraccio, la prima che ci vediamo, monta in macchina e riprendiamo il tragitto che ci porta in centro. Simo inizia a descrivermi un po’ la città, di notte è tutto molto bello palazzi grandi, strade larghe, pochi rumori. Noto una certa uguaglianza tra le varie strade, e gran parte degli edifici sono esattamente come erano il primo giorno nessuno li ha mai ritoccati.
In questa città nessuno mette le mani su niente. Giallo, grigio e rosa un po’ ovunque. I ragazzi mi parlano per la prima volta della città nera (scura) concetto che ritroverò più volte in pochi giorni. Catania è una città costruita in gran parte grazie allo straordinaria materia che Dio Etna gli Dona la Pietra Lavica, c’è n’è ovunque. Ne ho vista ovunque. Ecco la Lavica nera, Catania e la sua gente.
Arriviamo in albergo, all’ingresso ci aspetta Alessandro un ragazzo estremamente gentile che gestisce questo posto insieme alla sua famiglia, mi porta nel mio appartamento e mi fornisce tutto ciò di cui ho bisogno “appena hai fatto ti aspettano per cena in terrazza”. Mi lavo le mani sistemo le mie cose e riscendo. Appena giù chiedo della terrazza e salendo due rampe di scale ci arrivo. Gran parte dei palazzi in centro storico hanno un tetto a schiera fatto con dei mattoncini curvi arancio, uno sull’altro. Dalla terrazza il panorama è incantevole mi trovo in pratica al centro dei tetti del Centro di Catania. Al centro della terrazza una tavola tonda e un po’ di amici che aspettano. Simonetta e Fabrizio mi presentano Orazio e Morena e poi Viviana e Marcello. Roma, Mantova, Catania, Napoli, tavola rotonda e l’Italia. La cena è meravigliosa la compagnia finanche meglio. Discutiamo con piacere per un po’, Marcello è straordinario in meno di un’ ora mi mostra il suo terrazzo che da sul Castello a picco sul mare, il suo imminente e desiderato viaggio ai Caraibi e mi parla del suo lavoro. La moda, le feste, le piazze, le chiese, la Sicilia insomma. Si fa tardi devo riposare, saluto a malincuore i miei commensali e faccio ritorno nel mio appartamento, un tetto fra i tetti. Poso le mie cose, ricarico i miei aggeggi ed apro la finestra, è notte stellata. Nel mezzo mi ci addormento.
Sveglia alle 8.00, ma il mio orologio Biologico anticipa due ore, circa. Alle sei del Mattino Catania dorme, sento il suono degli uccellini che iniziano la loro giornata e attratto metto la testa fuori dal finestrino appena sopra il mio letto. Di fronte a me una Chiesa avvolta da variegati alberi giganti che, visto il periodo, mostrano i migliori fiori. Rosso e arancio, tetti gialli e marroncino. Verde gli alberi. Azzurro e blu il cielo.
Si fa ora, dopo la doccia scelgo le ottiche, preparo lo zaino, mi vesto e giù per le scale. Appena fuori c’è un bar, un posto non molto vecchio, entro scelgo un dolce, torta di mele, e prendo un caffè. Chiedo al signore al banco dove posso comprare delle pile, saluto un signore anziano con il quale avevo scambiato due parole ed esco. Due passi e poi sinistra, infondo alla strada mi si apre il primo sipario. Dieci alberi secolari sistemati in fila uno di fronte l’altro che insieme formano un corridoio del tutto naturale, alla fine di questo corridoio, in profondità quattro uomini Siciliani un po’ in là con gli anni sono seduti e chiacchierano tra di loro fuori ad un circoletto. Siamo nel Maggio 2015 eppure potrei raccontare della stessa identica scena almeno per i precedenti 50 anni senza lasciarvi il minimo sentore di menzogna. Perché a Catania in alcuni punti il tempo si è veramente fermato, e fermandosi ha lasciato li tutto quello che c’era: Il mercato del Pesce, i banchi per strada, i palazzi corrosi, la gente distratta, l’insalata all’arancia e i colori, Migliaia di colori.
Città scura se scuro è colore.
Giuseppe Divaio e Catania.
Alle sei e trenta suona la prima sveglia.
Questa volta ci metto poco ad alzarmi dal letto, mio fratello alle 7 e 30 deve trovarsi a lavoro. Mi da un passaggio.
Sull’asse mediano prima delle 7 non ci trovi nessuno, l’aria è gelida e umida. In macchina è caldo la radio racconta e dritto il Vesuvio, imponente come sempre. Il cielo è una tavolozza e tira fuori le prime luci del giorno, mentre, con fatica, mette da parte l’ultimo buio. Faccio una foto.
Arrivato alla stazione saluto raf e prendo una strada, un ingresso, secondario. In genere entro dal centro ma evidentemente è da un po’ che ci mancavo e qualcosa e cambiato. Una volta dentro non ho fretta, il mio treno parte alle 8:00.
Cerco un edicola, quelli precedenti sono stati giorni molto movimentati. A Parigi hanno dato di matto e con il “Il Fatto” questa mattina esce Charlie Ebdo sono curioso.Il freddo nel frattempo entra anche in stazione,ho messo su un maglione col collo alto ed oltre al cappotto neor ho portato una sciarpa a cerchio che in casi come questi amo mettere in testa , ci avvolgo il capo.Un ora passa in fretta e il tabellone delle partezne segna il binario del mio treno,il 18.Con calma mi avvio alle carrozze trovo la mia, n 7 salgo e mi sistemo al posto 15.
Poso il mio zaiono, tolgo cappotto zaino e mi siedo.
Pino Daniele continua il suo Live nelle mie cuffie.Il treno parte puntuale.
Di fronte a me c’e’ un ragazzo, un mo cooetaneo. Non ha una bella aria, con quella faccia probabilmente andava a fare qualcosa che proprio non gli doveva piacere.”Il fatto” racconta nei dettagli la situazione Parigina, alcuni pareri sono molto interesssanti, anchio ho una mia idea ma questa è un’altra storia.Non faccio in tempo a finirlo il giornale che gli altoparlanti annunciano “Roma Termini”, viaggio rapido molte volte ci metto di più per arrivare in macchina a Pozzuoli.Per questo non vado mai a Pozzuoli.
Termini.
Un anno finita la scuola a mia madre venne l’idea di mandarmi da zio Salvatore a Roma.Ero entusiasta, amavo quella città e sravedevo per i miei zii.
All’epoca vivevano in una casa nel centro storico, sopra una chiesa, una delle tante.Roma è zeppa di Chiese.
Si entrava da un portoncino e per salire una rama di scale.Era sempre molto scuro e prima delle scale un piccolo spazio dove zio metteva ogni cosa, lui aveva passione per l’antico.
La casa, su due livelli, era molto accogliente.Il primo livello era un unico salone con una cucina ad isola e un grande tavolo in legno.I miei zii amavano invitare gente a casa e quando mi ci ritrovavo era proprio una festa. Dall’entrata Sulla destra una scala che a due livelli, uno intermedio dove c’era il bagno il seconda dove trovavi le camere da letto.Due, una matrimoniale con un finestrino dove zia dava da mangiare agli uccellini, che talvolta l’aspettavano, e una cameretta che sarebbe dovuta essere dei miei cugini, ma visto che era piccoli veniva usata come deposito per i tanti gichi. Quell’anno restai quasi un mese a Roma e fu veramente divertente, ma avevo 9 anni circa, e casa mia mi mancava, cosi mia madre decise di venire su a prendermi. Ricordo quel giorno. Andammo con i miei zii, francesca e Luca che era piccolissimo, alla stazione il treno da Napoli sembrava non arrivare mai. All’epoca si fermava in ogni stazione il viaggio era veramente tale.
Poi d’un tratto zio legge dell’arrivo ci porta sul binario e dal treno mia madre e i miei fratelli. Raf era un bimbo! Aveva una testa enorme, o forse ero che amplificavo tutto per la felicità. Nel frattempo, circa 25 anni dopo, nella stessa stazione, mi avvio verso l’uscita.
Avrei bisogno di un caffè ma preso da altro me ne dimentico. Una volta fuori, cerco il 69 solito autobus che mi porta in centro ma cè un bel sole, è una splendida giornata e Roma si lascia guardare.
Percorro via Nazionale a piedi, fino a Piazza Venezia , poi via del corno e m’infilo nei vicoli che portano a p navona, nel frattempo ho già scattato un po di foto.Cerco un bra per la colazione ma la macchina fotografica mi distrae. Arrivo al Panteon ed ogni volta mi passa davanti agli occhi la stessa scena di un film: Ocean Eleven dove, con l’appuntamento di ornella vanoni in sottofondo, lui scappa da lei scena che ho vissuto in altri posti. E’ un luogo magico nonostante sia pieno di gente a tutte le ore del giorno.L’azzuro di alcuni palazzi si perde nel giallo di altri e Roma Danza.Continuo la mia passeggiata e mi trovo a Sant’Eustacchio, pochi metri da Piazza Navona, e mentre sistemo il mio zaiono, sulla mia sinistra noto un portone.Una grande parete Arancio antico consumato dal tempo. Non avra vuto più di settanni. Una delle tante case costruite nella grande ricostruzione post gurerre mondiali.E’ una straordinaria composizone cromatica.Una porta marrone,e in alto a sinistra, quasi isolata, una finestra da cui venivan fuori tanti piccoli fiori rossi. Mi siedo, Un ginocchio per terra e prima di scattare contemplo la mia foto. In una città con duemila anni di storia, la mia foto che potessi trovare è una porta.Resto un po’ giù e un maresciallo dei carab mi nota. Mi scruta per un pò poi capisce,credo.
Passa vicno mi sorride e “Buongiorno”! buongiorno a lei signore. Roma racconta io ascolto.
Ultima volta la Grecia l’ho vista nel 2014. Quindici anni dopo la prima. Il ricordo di un paese sorprendentemente in crescita, rifugio esotico in piena #europa lasciva posto all’illusione rovinosa del grande Circo turistico, abbonato al centro e devastato ai suoi lati. Malinconia Greca, da com’eravamo a come siamo.
Giuseppe Di Vaio