Finisco la mia acqua. Il Taxi arriva per le 4:00.
E’ molto tardi, la notte è andata su in discorsi cosi alti. Alti come il piano in cui alloggio. 32 Cabot Square.
Canary Wharf è l’America in Europa, qui i Palazzi grattano il cielo e tutto intorno le luci si accendo e spengono, senza sosta. All’ingresso del quartiere una piccola dogana ti riconosce o se, non hai un buon motivo, non entri. Dai piani più alti guardando verso sud lo sguardo per qualcuno va oltre la manica, chi vuole sogna.
E’ ora, Il telefono squilla: “Buongiorno signore sono giù che l’aspetto” puntale; “Mi dia un minuto scendo Signore”.
E’ Giugno la notte a Londra e fresca e manco a dirlo, piove. Chiudo la mia borsa, prendo lo zaino dal tavolo ci vanno le ultime cose, una controllata e saluto chi resta. Un abbraccio non è mai di troppo, con alcuni di loro non ci si vedeva da anni. Enzo e Frank stanno dall’altro lato della città, Salvatore dorme in camera con Nina. Francesco torna a casa 7:30 la sveglia suona per lui, Simone, Angelo e Gennaro scendono con me. L’ascensore va giù. Appena fuori l’edificio dall’ alto una leggera pioggia passa per le luci arancio di un lampione cade e mi sfiora, senza bagnarmi. Venti passi arrivo alla macchina ferma dall’altro lato della strada. L’autista scende per il bagaglio e togliendomi con cortesia la borsa dalle mani mi chiede dove fossimo diretti: “nord Signore” Gatwick Airport, terminal Nord. Si apre la portiera.
Una volta dentro l’auto chiedo se fosse stato possibile velocizzare le manovre, sarei dovuto partire tra meno di un ora e mezza, e a sentire l’autista il solo viaggio in Taxi sarebbe durato un ora. Il tempo.
Londra dorme, le strade sono vuote, anche se in realtà questa è una di quelle città che non dorme mai a sonno pieno. Vive tutto il giorno e basta un piccolo sbalzo per svegliarla, per risvegliarti.
Ci fermiamo a fare benzina, il mio “cardriver” è un Pakistano, come me molto silenzioso. Chiede permesso scende dalla macchina, 50 sterline nel distributore infila la pompa nel boccale, un minuto, rifornisce e siamo in viaggio.
Non dormo da 36 ore ed anche se dovrei non ho molto sonno. L’atmosfera della notte Londinese nella mia testa è un tumulto di rumori, i colori mi accecano. E poi c’è Chet. Circa le 4 e 10 del mattino in Inghilterra, Napoli mi aspetta e Chet Baker inizia.
Anni fa , mi era capitato di ritrovarmi in un posto a est della città, alcuni dicevano che la musica era straordinaria, il cibo poco meno, e si poteva bere senza fretta: 999 Bricklane. Una Birra e chiesi al Barman se potevo salire nel Club, “ofcourse, you are wellcome” rispose il giovane uomo con la cortesia tipica di questi posti. Chiesi allora qualcosa da mangiare e salii una rampa di scale, dopo un breve corridoio mi trovai in una sala grande. Tutto intorno sparsi per il perimetro grandi divani in pelle amaranto intagliata a piccoli rombi, luci soffuse e pareti in mattoncino. Appese alle pareti opere di ogni genere che attraverso un percorso visivo acquistavano la loro logica. In fondo alla sala un musicista con la tromba, suonava Jazz e in torno ognuno, da solo o in compagnia, beveva il suo. Sono lento a bere, se il posto mi piace lentissimo, Londra corre veloce. Mangio qualcosa, finisco con calma il mio drink mi guardo in torno e decido di bere ancora. Gli inglesi vanno matti per la birra o se proprio non sono in vena bevono Whisky; torno al banco e chiedo Jagermeister, la ragazza mi guarda stranita, e con una sottile vena di ironia chiede “Jagermeister?” non le sembrava forse vero. La sua difficoltà si manifestò nella faticosa ricerca di un bicchiere nel quale versare l’insolito drink. Gli Inglesi.
Sciolto dal secondo bicchiere, forse dal terzo, e dalle note che arrivavano dall’altro lato del Club mi avvicinai al musicista in fondo alla sala che nel frattempo aveva accompagnato il mio solito viaggio notturno, quelli erano i tempi. Gli dissi che sarei stato molto contento se avesse suonato per me un pezzo del mio jazzman preferito, Chet Baker. Lui un uomo di colore sulla cinquantina, alto, magro e slanciato, capelli corti sotto un cappello nero, baffi ben curati, pantalone scuro un tantino largo, mezzo stivaletto a punta, ed una giacca a quadri con delle sottili linee gialle: si ferma posa la tromba e in modo estremante gentile mi porge la mano e mi dice “ Signore io amo Chet, ma Chet non si può. Una sola persona poteva suonare i suoi pezzi, lui stesso. Sono desolato”. Gli Inglesi.
In autostrada, nel frattempo la pioggia aumenta, in alcuni punti ho difficolta a vedere la strada davanti a me. E’ molto chiaro, però, l’enorme anello in oro bianco con una grande pietra nera che il mio “cardriver” porta sull’indice della mano sinistra. Lo vedo con la coda dell’occhio, ci sono seduto dietro lato destro, qua si guida in senso inverso, lui muove le mani lentamente e in modo fluido, le stacca dal volante solo per cliccare il tasto dell’auricolare del suo cellulare. Dev’esser molto un uomo ricercato, alle quasi cinque del mattino in un ora avrà ricevuto almeno 6 telefonate, tono molto serio ed ogni volta due pensieri per “Allah”. Un bravo pilota. Ai lati della strada le enormi campagne Inglesi sono la cornice perfetta il pezzo che scorre nelle mie cuffie, “Alone Together” :la tromba è più del solito raffinata, la pioggia sottile si poggia fitta sui tetti a schiera delle ville sparse a decine di metri di distanza, l’erba lucida diventa un cuscino. L’aereoporto non è cosi lontano.
Giuseppe Di Vaio e Londra